Si è chiuso il 1° LUISS ALL STAR, una re-union fatta di passione ed amicizia, dove calciatori LUISS di oggi, di ieri e anche dell’altro ieri si sono riuniti attorno a un pallone, per sfidarsi in un quadrangolare, divisi solo per gioco da maglie di colore diverso.
Il valore del ritrovarsi, dell’abbracciarsi di nuovo, di far parte di quell’unica famiglia dove anche dopo tanti anni l’emozione di incontrarsi resta immutata. E’ questa la LUISS, sono questi gli uomini che ha formato per i quali il valore dell’amicizia ha ancora un significato importante.
E’ qui che Assieur ha deciso di essere, sostenendo una competizione di cui condivide i valori che ne sono alla base.
A 10 anni esatti dalla prima finale vinta, l’unico modo per vivere le emozioni e descrivere cosa è accaduto nell’ultima caldissima domenica della primavera 2016, è leggerlo da quanto hanno detto i diretti interessati.
La storia del calcio LUISS si è aperta davanti a noi…
“Ritrovarsi, soprattutto per chi, come me, non vedeva i suoi ex compagni da anni, ha tolto il fiato ancora di più del campo. E di fiato il campo ce ne ha tolto tanto, considerato il coraggioso fischio d’inizio alle 16, che ai più giovani sarà sembrata una sorta di preparazione ai mondiali in Qatar, e che ai più anziani ha invece ricordato USA ’94. La mia squadra era la viola, #FARINA&VIPERS. Farina, capitano che – dice – non può giocare, sta in panchina a gestire i cambi. Tutti tranne quelli di Mister Maurizi, che si cambia da solo, buttandosi dentro e tirandosi fuori dal campo in totale autogestione. Io parto in panchina e vedo subito che Cuppone è cambiato, si è evoluto in regista davanti alla difesa, e ha sviluppato una capacità di gestire palla sotto pressione e di dettare i tempi di gioco davvero notevoli. Ha perso lo scatto, certo, ma chi non lo ha perso? Lo zio Vallo, asciuttissimo, siede accanto a me. Così come Gigante, che ho conosciuto quest’anno sui campi di calcetto come Er Vipera. Il resto non li conosco, a parte Maraga che ho incrociato l’anno scorso a un torneo di calciotto e, anche se è difficile da credere, lì passava la palla ancora di meno.
Di fronte abbiamo i rossi, #IOSTOCONMORGANTE, che hanno una spina dorsale bella tosta: Zuccoli in porta, un ottimo difensore centrale, Mottola in regia e una buona punta. Oltre a Cisotta che si muove come al solito sul centrosinistra e un Fiorenzo Iovane in panchina in pieno controllo emotivo del gruppo. Leone, Di Mase e Faùsto Gennaro garantiscono minuti di carisma e sicilianità, mentre Morgante offre il consueto dinamismo pazzo, e credo abbia giocato con una canotta larga sotto la maglia. Un po’ sacrificato, invece, a partire dal numero 3 che gli hanno rifilato, è Caruso, ancora più roscio e arruffato di un tempo, uno dei segreti meglio custoditi della storia del calcio LUISS. Gioca poco e io non me ne dispiaccio.
Anch’io gioco poco, e meno male: faccio 10 minuti sovraritmo a cercare la posizione, non la trovo e disperato chiedo il cambio. Fa un caldo indegno. Finisce 0-0, con una prestazione straordinaria del nostro portiere Pietracupa. Vinciamo noi ai rigori, quello decisivo lo segna il nostro ottimo numero 7 (Gazzo? Può darsi?): primi due punti del torneo in saccoccia. Filtra ottimismo.
Sull’altro campo però pare che i gialli, #GUZZOEBASE, abbiano messo in mostra un calcio bello e tambureggiante, spazzando via gli azzurri #SIMUDELECCE come lo ientu salentino fa d’estate con i vostri asciugamani a Torre dell’Orso.
Il secondo match lo giochiamo proprio contro gli azzurri, capitanati dal Moro Bray e ispirati dall’esperienza internazionale e dai tatuaggi finti di Luca Cesarini, l’eroe dei tre mondi. Sulla destra staziona un Bulgarella appesantito dai pasti abruzzesi e andalusi (yes: ANDALUSI) dei giorni precedenti. Nel mezzo hanno Gargano, che in questi anni ha perso i capelli, iscrivendosi al nostro club di calciatori calvi che vede me, Di Mase, Fabio Ricci e il Bomber Chiriatti tra i soci fondatori, ma quello che Guli non ha certamente perso è l’abilità di governare un centrocampo. Bomber Chiriatti, appunto, là davanti c’è anche lui, col suo sinistro mitologico in grado di minacciare contemporaneamente tutte le porte del Futbol Club, quasi tutti i portoni del Villaggio Olimpico e anche qualche lampione ai Parioli. Poi, sotto la sua nuova barba da hipster di Roma Nord, mi sembra di riconoscere persino Pillot.
Su una grande ripartenza sfioriamo il vantaggio, con un eccezionale tuffo in controtempo del loro portiere a tirare via dalla linea il pallone. Ripartono, siamo sbilanciati, vanno al tiro e Pietracupa si oppone, sulla respinta segna il buon Luchino Delle Femmine in mezza rovesciata un po’ sporca. Dopo poco prendiamo anche il secondo. Mi ritrovo inspiegabilmente in campo da centravanti, provo a pressare i loro centrali e a dare un po’ di profondità. Siamo stanchi ma un po’ di orgoglio lo tiriamo fuori e riusciamo a segnare con un bel tiro da fuori del nostro 7, che continuo a supporre fosse Gazzo. Cerchiamo il pareggio. Su una sponda spalle alla porta Moro mi fa saltare in aria come ai vecchi tempi, e il dolore si fonde con la nostalgia. Il pallone va così lontano che l’arbitro non fischia neanche fallo. Moro, un po’ deluso, si ripete poco dopo sulla destra, facendo brillare stavolta Cuppone. Dopo un cordiale scambio di insulti, Cristian batte a sorpresa verso di me, appena dentro l’area. Tiro di prima, palla alta tre metri sopra la traversa. Finisce la partita. Per andare in finale dobbiamo battere i gialli, che per non sbagliare hanno intanto vinto di nuovo, in scioltezza.
Viene fuori che i gialli, a parte la solidità di Fabio Ricci, la professionalità di Montemurro e il tocco lento e felpato di Francesco Ferretti, sono tipo lo squadrone della morte, una via di mezzo tra gli Avengers e i Dothraki di Game of Thrones. Il capitano è Costagliola, che più tardi si rivelerà anche talentuoso deejay e ballerino, davanti c’è Arena, che vedo giocare per la prima volta e si muove come un centravanti vero. In mezzo hanno un 10 che sembra una fusione tra Ozil e Modric. I difensori enormi sono fatti di titanio, leggeri e infrangibili. Dopo un quarto d’ora siamo avanti noi per due a zero.
È successo che Farina ha deciso che un pochino forse può giocare, e si è messo a far girare la squadra. La squadra, dal canto suo, alla terza partita ha iniziato a conoscersi un po’, è motivata, ordinata e reattiva. Io, dopo due grigi spezzoni finiti chiedendo o sperando il cambio, ho ripreso confidenza con quei ritmi e sono addirittura riuscito a fare l’assist per il primo gol, tocco sotto di Maraga che beffa Morabito in uscita. Nel secondo tempo intercetto un passaggio e volo in campo aperto guidando un tre contro uno, Maraga a destra, Gazzo a sinistra, scelgo Gazzo, continuo la corsa, Gazzo me la rende e appoggio in rete per il tre a zero, con Mister Maurizi che dalla panchina mi urla “Gatto ti ricordi ancora tutto!” e io che di nascosto mi commuovo un pochino. Poteva essere il preludio a una grande finale, invece è l’ultima gioia della giornata. I gialli si sono infastiditi e alzano il ritmo, noi crolliamo fisicamente, perdiamo le distanze, prendiamo 3 gol in 10 minuti, sbagliamo un rigore, ne prendiamo altri 2. Perdiamo 5 a 3, e io resto con zio Vallo a rosicare a bordo campo, seduto, mentre intanto inizia la finale Gialli vs Rossi. Il primo tempo è equilibrato a tal punto che il primo gol dei gialli non lo segna nessuno, il pallone entra in porta da solo. Adesso però, coi gialli in vantaggio, i rossi dovranno fare la partita e la mia impressione è che sia in realtà finita lì. Ne approfitto per andare a farmi la doccia, dallo spogliatoio sento le urla per il secondo gol dei gialli. Hanno vinto loro ed è giusto così!”
La festa e l’amicizia.
“Tutto questo resoconto in soggettiva del quadrangolare (davvero, mi spiace non conoscere tutti e quindi non poter raccontare in modo un po’ più equilibrato) è in realtà solo una lunga introduzione alla festa successiva, il vero momento della giornata, e anche il suo vero scopo.
Se rincontrarsi era stato emozionante, avere anche l’occasione di passare insieme una serata è stato fantastico.
Tra un tramezzino, un bicchiere di vino e un pezzo latinoamericano, io ho ritrovato la mia squadra, e mi sono reso conto, ci siamo tutti resi conto, che siamo ancora quella cosa lì. Poi, lentamente, mi sono anche reso conto che i confini di quella cosa lì, la mia squadra, non erano dove credevo che fossero. Che alcuni miei compagni, che magari avevano giocato un po’ più a lungo di me, avevano altri compagni, che io non conoscevo, anche loro parte di quella cosa. I quali, a loro volta, avevano altri compagni, ancora più giovani, e così via fino ad arrivare ai componenti della rosa odierna, che hanno 10 o 12 anni meno di me, di noi che c’eravamo nel 2005/06.
Tutti legati dal fare o dall’aver fatto parte di una squadra che, mi sono reso conto, ha ancora un’identità, anche se con diverse declinazioni a seconda delle stagioni. Un’identità in evoluzione, come ovvio, ma con un minimo comune denominatore solido.
In un qualche momento della festa ci siamo raccolti, noi “vecchia guardia”, per una foto di gruppo. Siamo partiti in 6-7, poi dopo un attimo eravamo 12, e l’attimo dopo almeno una ventina, e altri continuavano ad aggiungersi. A un certo punto, anche per ragioni di spazio, l’afflusso si è interrotto e il fotografo ha scattato, ma la sensazione era che tutti quanti i presenti, anche quelli che si erano solo avvicinati ed erano rimasti a guardare, si sentissero parte di quella foto.